Diario di Bordo “Missione Casamance”

Qui di seguito vi riportiamo le impressioni di Francesca in missione nel Casamance in Senegal.  Nel diario potrete trovare i racconti e le esperienze che ha provato e le descrizioni dei progetti che il CPAS porta avanti. La ringraziamo per averci messo a disposizione il suo diario. Buona lettura!

27 luglio 2015 – LA PARTENZA

Immagine4La mattinata è stata intensa, le ultime commissioni da fare, la valigia da alleggerire, ancora un salto in ufficio per alcune urgenze, il pranzo al volo e si parte da Asti già in ritardo di mezz’ora e con l’affanno di chi ha fatto della velocità un motivo di vita. Alle 16.00 ci troviamo in aeroporto con Cesare, nostra guida e compagno di viaggio. I nostri occhi sono vivaci e curiosi come bambine il primo giorno di scuola: non sappiamo cosa ci aspetterà, ma sappiamo che attraversare quella soglia ci aiuterà a diventare grandi. Lavorare nell’accoglienza di cittadini migranti fa sentire impreparati, stimola domande, timori e solo poche volte restituisce soddisfazioni..il lavoro con le persone è complesso, è un’attitudine all’umanità che si deve nutrire e maturare. Ecco il motivo del nostro viaggio: partire alla ricerca di quell’umanità che sta alla base di ogni legame e che viene così difficile trovare con chi ha subito tanti e troppi tagli nella sua storia per legarsi ancora. Alle 22 ore locali atterriamo a Dakar e Moustafa, seduto accanto a me, mi dice con orgoglio: “Benvenue en Senegàl”.

Francesca

 

28 luglio 2015 – DAKAR

Giunta da un’afosa estate italiana, l’aria umida e calda che mi investe uscita dall’aereo mi toglie il fiato. E’ quasi notte all’aeroporto internazionale di Dakar e ci dirigiamo verso l’uscita. Completate le formalità doganali e ritirati i bagagli, numerosi porteur cercano di convincerci che il loro servizio è indispensabile per raggiungere la città. Questi volti, questi abiti, mi sono familiari, quotidiani. Sono sguardi che già conosco, quelli di chi un giorno decide di lasciar tutto perché ha fame e parte verso di noi. Dopo una lunga serie di –non merci- ecco il sorriso di Demba che ci saluta e stringe Cesare in un forte abbraccio. Benvenuti! Demba è senegalese, ma conosce più astigiani di me. E’ della Casamance, ma ha vissuto dodici anni ad Asti. Ora è tornato a casa e gestisce con due soci una ditta di taxi: Les italiennes a Dakar. Mi consiglia cosa mangiare e così assaggio il mio primo Thieboudienne con gazelle: chiacchiera, sorride e dice che appena sarà più libero con il lavoro tornerà a trovarci. Torniamo in camera, è notte, fa caldo. Prima di andare a dormire ci spruzziamo di insetticida, poi mi sdraio al riparo della zanzariera e penso che sono arrivata in Africa. Al mattino, uscita sul terrazzo, un volo caotico di farfalle mi dà il buongiorno. A pochi metri la spiaggia di N’gor, le piroghe di legno e l’oceano. Camminiamo tra le distese di banchetti di legno dove gruppi di bambini grigliano pescetti appena pescati. E’ tardi e il traghetto per Ziguinchor parte nel tardo pomeriggio. Prima salutiamo Demba e lui ci risponde: salutatemi la Casamance, la terra più bella che c’è.

Francesca

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28 luglio 2015 – LA TRAVERSATA IN MARE

Il traghetto è ancora attraccato al porto, ma noi come la maggior parte dei passeggeri ci facciamo spazio sul ponte per rapire con lo sguardo ancora un po’ della caotica Dakar. Lo skyline della città rapisce. Mentre il sole tramonta dietro i quartieri di cemento, riesco a scorgere in lontananza il profumo di spezie e cipolle iniziano a penetrarci.E’ l’ora della preghiera per i musulmani, alcuni cercano un angolo privato e si inginocchiano su un morbido tappeto, altri, invece, sgranano un rosario e con gli occhi si perdono nell’orizzonte.La notte scende velocemente, intorno a noi il buio e il mare. E’ proprio il mare che mentre dormo, mi scuote e mi sveglia, le onde sono alte e la barca sembra lottare per tenere la rotta. Sono in mezzo all’Oceano, lontana da casa e in balia della natura, ho un brivido di paura. In un attimo il mio pensiero va al mare di notte raccontato dai nostri migranti: la paura, il freddo, la morte e faccio fatica a riprendere sonno…proprio io che invece sono al sicuro!

Francesca
 
ZIGUINCHOR
La sveglia in cabina è frizzante, dall’oblo vediamo una sottile lingua di terra: è la Casamance che ci accoglie! E’ tarda mattina quanto arriviamo al porto di Ziguinchor. Il pontile è occupato per metà da ceste straripanti di frutta e verdura pronte per essere imbarcate, a sorvegliarle donne e bambini seduti all’ombra. Passiamo davanti a loro con le centinaia di persone che hanno viaggiato con noi, tutti ci apprestiamo verso l’uscita desiderosi di perderci tra le strade della città, ma la corsa è rallentata dai numerosi controlli delle forze dell’ordine che ci costringono in coda. Un bimbo, avvolto da una coloratissima stoffa, fa capolino dalla schiena della mamma,..ci guarda e piange disperato! Lei sorride e ci dice “ha paura di voi!”, poi come ogni mamma sa fare, si preoccupa di proteggere il suo piccolo da ciò che lo spaventa e finge di scacciarci via come un Supereroe fa con i cattivi…a noi non resta che sorridere amaramente e pensare: altro che paura dell’uomo nero! Passati i controlli ci affacciamo finalmente sulla città! Decine di taxisti ci avvicinano per proporci il loro servizio, i nostri compagni di viaggio spingono e ci superano, loro sanno dove andare, mentre io mi sento disorientata e impacciata con il mio valigione. Il trolley sulle dissestate strade di Ziguinchor fa fatica e la mia attenzione rapita da migliaia di dettagli urbani e umani non aiuta a dargli la giusta direzione. Il taxi è una berlina di colore giallo e nero che ricorda le nostre auto “belle” degli anni ‘80/’90, gli interni sono impregnati della polvere rossa delle strade e vissuti da chissà quante migliaia di passeggeri, la radio ci culla con una musica ritmata e avvolgente mentre sul cruscotto adesivi e ornamenti sembrano amuleti capaci di proteggerci da tutto. Scruto dai finestrini cosa ci circonda e non vedo l’ora di conoscere tutto!
Francesca
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Dopo aver lasciato Ziguinchor per strada incontriamo buche, dossi e fango. Più proseguiamo, più la strada si allontana all’idea di strada e si avvicina a quella di un percorso ad ostacoli verso la brousse. Il paesaggio cambia velocemente, dal finestrino guardo fuori: mangrovie, baobab, fromager giganti, palme, manghi, risaie e tantissimi termitai di argilla rossa che svettano al cielo come totem. “Quello è il Kadiandou, lo strumento tipico del contadino diola che si usa nelle risaie”, ci spiega Cesare indicando due ragazzini che portano sulle spalle una specie di pala lunga almeno tre volte le nostre. Siamo nella zona di Tobor diretti verso Koubanao, villaggio in cui il CPAS conduce da anni progetti di cooperazione per lo sviluppo in campo agricolo e sanitario. Pape, il ragazzo alla guida, conosce bene queste strade, sa come muoversi e si destreggia surfando tra i laghi di fango per circa un’ora di viaggio. Koubanao non è lontano, ma i tempi sono dilatati in questa parte di mondo. Arrivati a destinazione ad attenderci ci sono alcuni membri del Kdes –associazione locale che si occupa dello sviluppo socio-economico della comunità rurale di Koubalan. Ci accolgono con affabilità e sorrisi. Per oggi è previsto un incontro organizzativo delle attività di formazione che il CPAS svolgerà nei prossimi giorni, un momento di scambio e di confronto. Dopo le varie presentazioni ci stringiamo in cerchio sotto l’albero di mango e inizia l’assemblea. Il primo a prendere la parola è Arona, maestro delle elementari a Koubanao e presidente del Kdes. Ringrazia l’attività di accompagnamento e sostegno ricevuta dal comitato. Ci spiega che il loro obiettivo è arrivare ad essere autosufficienti nella produzione di riso: per ora riescono a coprire sette/otto mesi all’anno e per i restanti sono costretti ad acquistarlo da altri paesi. Poi fa una pausa e aggiunge: “Quello che compriamo è riz sans ame, per questo vogliamo aumentare la produzione”. Ci spiega che le principali cause di questo problema sono la scarsità delle piogge, gli strumenti agricoli antiquati e la mancanza di formazione degli agricoltori. E’ questo il motivo per cui il CPAS ha organizzato con i partner locali alcuni seminari per i contadini sulla conservazione e riproduzione di sementi e sulla micro-meccanizzazione. Arona ringrazia per la fornitura dei quattro motocoltivatori alle due comunità rurali coinvolte nel progetto di riso, e spiega che questo permetterà loro di produrre maggiori quantità di riso, in minor tempo e con minor fatica. Prima di pranzo visitiamo il dispensario medico e poi proseguiamo per le strade sabbiose di Koubanao tra le case di fango e lamiera. I bambini escono dai cortili e ci chiamano “louloumme louloumme” –bianco in diola-. Si raggruppano, come per farsi coraggio, si avvicinano e poi scappano. Alcuni ci toccano, ci danno la mano tra l’impaurito e l’incuriosito. Il cielo è grigio, gonfio. Giusto il tempo di assaggiare un tipico piatto della tradizione diola e inizia a piovere. Ci ripariamo sotto la tettoia. Dal mio posto osservo l’acqua cadere e il cielo svuotarsi. Solitamente non amo la pioggia, ma qui a Koubanao riesco come non mai ad apprezzarne l’eleganza e la forza. Una benedizione per questa terra arsa, che disseta, che dà speranza e che attiva i contadini alla semina. Penso ai ragazzi provenienti dalla zona di Kayes, nel sud del Mali, in fondo al Sahel, alle loro storie che spesso ascolto per lavoro, ai loro occhi di quando raccontano della siccità, della terra dura come il marmo che non si riesce a lavorare, della fame e del giorno in cui si decide che non c’è atra scelta se non quella di lasciare tutto e partire. Malick, agricoltore del Kdes, guarda il cielo soddisfatto: “C’est bon”. In lontananza si alza un canto, è quello del muezzin, che chiama a raccolta i fedeli. Malick si sciacqua il viso, le mani, i piedi con l’acqua piovana e si prepara a pregare.
Francesca
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